Dove la Valle del Boia, sopra Campotamaso, incomincia ad essere più ripida, si ergono, tra le coste dei monti, i resti della contrada Vallone Marana, ora del tutto abbandonata e in rovina, la quale fu abitata fino alla fine degli anni cinquanta da quattro nuclei familiari che comprendevano una ventina di persone. La si ricorda soprattutto come la contrada del munaro, perché nel primo casolare che si incontra salendo c'era un mulino le cui pale in legno erano azionate dall'acqua dell'adiacente torrente (solo poco dopo il primo conflitto mondiale la ruota era stata sostituita da una turbina). L 'acqua veniva derivata dal torrente dapprima incanalandola in una roggia scavata nei fianchi del monte e poi in tronchi cavi, disposti in forte pendenza di modo che precipitasse con forza sulle pale della ruota. In precedenza, però, la sede del mulino era stato l' edificio più a monte. Sia nel primo che nel secondo mulino a volte, favoriti dall'isolamento, si macinava clandestinamente di notte anche il tabacco da tròdi, di contrabbando.
L 'aspetto degli edifici cadenti e del terreno circostante è un significativo esempio delle trasformazioni avvenute dove c'è stato il recente abbandono. Tutte le case sono disabitate e qualcuna sta crollando; nei ripostigli e nei miseri interni ancora si trovano resti dei vecchi strumenti di lavoro e della elementare, già preziosa suppellettile. La vegetazione arborea ha riconquistato tutti gli spazi e, anche volendo, non sarebbero più possibili le precarie colture del passato (patate, sorgo, frumento, viti, ortaggi) che riuscivano a dare frutto, oltre che in virtù e della costante cura e della dura fatica, anche grazie al maggior soleggiamento. Le rive e le masiere che le sostenevano sono in rovina, la terra scivola a valle senza che nessuno la riporti più a monte. È del tutto spenta la fervorosa vita della contrada, che pulsava silenziosa, anche quando pareva morta, durante i lunghi periodi invernali, allorché le abbondanti nevicate costringevano tutti a rintanarsi all'interno delle case a filare, a costruire utensili, a raccontarsi storie fantasiose, e che esplodeva vivace nelle altre stagioni, ricca di attività attorno alle case e sui campi e di voci degli animali di casa (ognuno aveva una vacca, qualche capra, qualche pecora, parecchie galline). L' emigrazione stagionale di chi si allontanava temporaneamente per andare a cercare, vicino o lontano, qualche fonte di guadagno con la quale allontanare lo spettro della fame, è divenuta stabile e definitiva.
Un piccolo mondo è, come tanti altri, morto. Ma...
In una calda mattina di aprile, salendo verso il “monte”, presso la località Vallone Marana ho incontrato il sole che baciava quel che resta della vecchia contrada. Non che sia una ristrutturazione recente, questo è avvenito almeno 20 anni fa, ma sepolto dai miei ricordi di bambno stavo ripensando a come era allora quell’antico borgo ed il bagliore del sole che si rifletteva su quei vecchi muri di nuovo intonacati ha risvegliato nell’animo ancora un senso di semplice ma intensa poesia. Mi sono soffermato ad ammirare il quadro e quasi ladro, ho cercato di rubare le immagini che vi mostro.
Ecco che cosa è ormai rimasto della vecchia casa di “Bepi Munaro”, fratello del “Moro” che viene presentato in un’altra parte del sito. Io me lo ricordo intento nei suoi lavori di riparazione dei vecchi attrezzi o quando stava lì, seduto, a guardare un punto nell’infinito, preso dai suoi pensieri, a fumarsi in pace la sua pipa. Forse a pensare alla “vecia Margretona”, sua seconda moglie, che tanto tenera non era.
E ho sbirciato nella sua intimità. Questa finestra dava nella cucina. Ogni tanto ci entravo e facevo con lui quattro chiacchiere. Non che fosse un cicerone nè che amasse molto la gente. Ma ero figlio di Marte, uno che abitava vicino a lui, e per buona creanza bisognava starlo a sentire. Non so se gli facevo più dispetto o più compagnia. A me faceva pena vederlo sempre solo. Sicuramente dai suoi silenzi si poteva imparare molto.
Un grazie anche a te “Bepi Munaro”.
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