Marino, il matto, quando è morto, ha lasciato Campotamaso orfano di una delle sue figure più emblematiche. Strana coppia quella di Marino e di suo fratello Luciano, anche lui un bel personaggio, alpino doc, ma meno impattante nella fantasia popolare.
Con la sua morte, avvenuta quando non era ancora anziano, il paese ha perso una delle sue anime: l’anima che segna il tempo, l’anima innocente di chi è vissuto nell’incapacità di fare del male, di chi ha sempre dato senza mai nulla chiedere, forte della filosofia della vita dei semplici che solamente la pazzia di cui era portatore poteva dargli.
Marino era conosciuto come “él Campanaro”, perché era addetto al suono delle campane, da quando, nel lontano 1965, queste furono trasferite dalla torre campanaria, a causa della sua pericolante struttura, alla più semplice struttura di metallo nella piazza della Casa della Dottrina. Era puntuale come un orologio, pur non possedendone uno e quando per caso sballava, i vecchi del paese regolavano i loro orologi sul segnale delle campane. Aveva due grandi passioni: le sue pecore e le campane. Succedeva spesso che alcuni ragazzi, per diletto, lo sbeffeggiassero e, non contenti, lo facessero arrabbiare promettendogli di andare a suonare le campane al suo posto.
Alla sera, nelle giornate più calde, soleva fermarsi nella terrazza fuori dal bar in attesa di compagnia, che non tardava a venire, per bere un bicchiere di vino offerto dai suoi paesani. Spesso, a seguito delle arrabbiature prese per le battute sulle “sue campane”, finiva in pianti dirotti seguiti da ubriacature innocue che sfociavano in canti di natura popolare. La sua canzone preferita era “la Stéla” e altre canzoni di Natale. Altri avventori del bar si univano spesso a formare un coro e tutto finiva in allegre pacche sulle spalle.
Quando si vedeva Marino correre a casa spingendo le pecore al trotto, qualunque fosse il tempo in quel momento, si poteva star certi che sarebbe andato a piovere. Quando c’era uno sposalizio, portava bene farsi fotografare vicino a lui che si affannava a suonare le campane, spingendo come un forsennato quei cerchioni che servivano per farle girare. Onnipresente vicino alle “sue” campane, ha segnato per il paese i momenti belli e quelli brutti, i matrimoni e le morti, la chiamata alla messa, il mezzogiorno, l’Ave Maria della sera.
Anche a Marino un grande grazie. Grazie perché il Paese è vissuto anche in te, che non lo hai mai tradito.
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